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Le linee guida in ordine al delitto di Peculato

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Le linee guida in ordine al delitto di Peculato

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Le linee guida in ordine al delitto di Peculato sono in continuo aggiornamento, e vengo delineate analizzando le differenti sentenze negli anni emesse dalla Corte di Cassazione.

Il peculato è annoverato tra i delitti dei Pubblici Ufficiali contro la Pubblica Amministrazione, ed è previsto e punito dall’art. 314 del codice penale, ai sensi del quale, al primo comma, prevede che: “Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio, che, avendo per ragione del suo ufficio o servizio il possesso o comunque la disponibilità di danaro o di altra cosa mobile altrui, se ne appropria, è punito con la reclusione da quattro a dieci anni“.

Il peculato è un delitto “cosiddetto” plurioffensivo, in quanto offende differenti beni giuridici tutelati. In primis esso offende l’imparzialità, regola ferrea alla quale un buon pubblico ufficiale e/o un valido incaricato di un pubblico servizio deve necessariamente sottostare, poiché, al contrario questi, appropriandosi della cosa mobile in loro possesso per ragioni di ufficio, ricavano dall’abuso della propria posizione funzionale un vantaggio illegittimo, sovrastando indebitamente le posizioni paritarie dei cittadini dinnanzi alla Pubblica Amministrazione.
In secundis il reato di peculato fa venir meno il buon funzionamento della Pubblica Amministrazione in quanto la sottrazione della cosa mobile lede l’interesse al mantenimento della destinazione funzionale-pubblicistica della cosa.

Da ultimo, il peculato offende la tutela del bene-interesse patrimoniale della Pubblica Amministrazione o del privato cui può appartenere il bene oggetto dell’appropriazione.

Dunque la giurisprudenza abbraccia la tesi della triplice offensività del reato di peculato: imparzialità, buon andamento e danno patrimoniale.
Secondo una parte della giurisprudenza, anche laddove non si verifichi un danno patrimoniale conseguente all’appropriazione, può sussistere il reato di peculato se vengono comunque lesi gli altri due interessi pubblici; ne è esempio il caso giunto in Cassazione, Sez. VI, il 10 gennaio 1993, con il quale si condanna un radiologo di un ospedale che aveva sostituito le lastre radiografiche della USL con altre di marca diversa e prossime alla scadenza.

In altre occasioni, la giurisprudenza ha stabilito che il bene da tutelare sia esclusivamente il patrimonio della Pubblica Amministrazione, negando che sussista reato di peculato, dunque, quando la cosa sottratta è priva di valore economico o ne ha valore esiguo (Cass., Sez IV, 19 settembre 2000).
Può “macchiarsi” di peculato solo un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio, ma non è sufficiente rivestire queste cariche pubblicistiche, occorre inoltre, perché si configuri il reato di peculato, un rapporto giuridico e di causalità tra la qualifica e l’oggetto dell’approvazione. Ciò significa che chi agisce deve possedere o disporre della cosa a causa e in ragione dell’ufficio o servizio (ad esempio, secondo la sentenza della Cassazione, Sez. IV, del 5 dicembre 2007, commette peculato chi esercitando un’attività di soccorso stradale, si sia appropriato del motoveicolo affidatogli in custodia in seguito al sinistro).

La disciplina generale del concorso di persone nel reato sancisce che è responsabile di peculato anche il privato che consapevolmente concorre con il soggetto qualificato, apportando un contributo causale alla realizzazione della condotta illecita. Dal momento che il peculato è un reato proprio non esclusivo, ossia che la condotta tipica del soggetto qualificato determina “un mutamento del titolo di reato” che in mancanza di quella partecipazione costituirebbe altro reato, risponde di peculato il privato anche se ignora di concorrere con un pubblico ufficiale o con un incaricato di un pubblico servizio.

Nel reato di peculato la pubblica amministrazione o il cittadino assolvano al ruolo di soggetti passivi quando la cosa oggetto è proprietà del cittadino e il fatto lede un suo interesse patrimoniale.

Perché si verifichi il reato di peculato occorre innanzitutto che il soggetto attivo entri in possesso o disponga del denaro o altra cosa mobile altrui e che ciò sia giustificato e motivato per ragione dell’ufficio o servizio. Il legislatore della riforma del 1990 ha eliminato il riferimento espresso al momento distrattivo con l’intento palese di trasferire nell’abuso di ufficio (previsto e punito dall’articolo 323 del codice penale) le condotte distrattive, ponendo l’attenzione sul concetto di appropriazione. Nel peculato c’è appropriazione nel momento in cui il soggetto attivo disconosce la ragione pubblica che giustificava il suo possesso e trasforma quella ragione di natura pubblica in ragione di natura privatistica appropriandosi della cosa pubblica per motivazioni proprie che si discostano completamente dal pubblico interesse.

Per quanto concerne l’abrogazione del cosiddetto peculato per distrazione, la scelta legislativa del 1990 non ha cancellato i problemi interpretativi. Fatica ad essere condivisibile, infatti, l’opinione che tutte le forme distrattive siano state o siano espulse dall’articolo 314 c.p. e siano confluite nell’abuso di ufficio. Nel momento in cui, infatti, la distrazione consista nel compimento di atti di disposizione (per esempio in mandati di pagamento) attraverso i quali la cosa pubblica viene destinata ad una finalità privata (quindi ad esclusivo profitto proprio od altrui) incompatibile, nella maniera più assoluta con le ragioni pubbliche che giustificherebbero il possesso della stessa cosa pubblica, è chiaro che, tale forma di distrazione si risolva in un’appropriazione a profitto proprio o altrui. Proprio con sentenza della Cassazione del 17 aprile 2007 (Sezione IV, n. 28645), nel caso SISDE, è stato ritenuto che integrasse il reato di peculato l’acquisto da parte di un funzionario mediante “fondi riservati” (che non sono oggetto di rendicontazione) di un immobile da un privato ad un prezzo superiore a quello dichiarato in contratto al fine di pagare meno tasse e, così facendo, arrecando al terzo venditore un profitto ingiusto.

L’elemento oggettivo del delitto di peculato è il dolo generico che consiste nella consapevolezza di possedere la cosa per ragioni di ufficio e nella volontà di appropriarsene per ragioni di interesse e profitto privato. Si tratta di un delitto istantaneo che si consuma nel momento e nel luogo in cui l’agente fa propria la cosa pubblica (chiaramente si parla di appropriazione solo quando la mancata restituzione della cosa si è protratta oltre un ragionevole ritardo). Il peculato è comunque configurabile quando la condotta del soggetto, per effetto di una circostanza estranea ad una sua libera scelta, si interrompe nel momento in cui ha già posto in essere atti non equivoci, idonei e diretti all’appropriazione della cosa pubblica (ad esempio il soggetto in questione si allontana dall’ufficio con il “malloppo”).

Alla condanna di peculato, punita con la reclusione da quattro a dieci anni, segue l’interdizione perpetua dai pubblici uffici; se la pena inflitta in concreto è inferiore ai tre anni, l’interdizione è solo temporanea come si evince dall’articolo 317-bis del codice penale. Per i fatti di lieve entità, come specifica l’articolo 323-bis del codice penale, è prevista un’attenuante.
Una delle questioni rilevanti in fatto di peculato e che rappresenta oggetto di discussione è se l’occasionalità della detenzione da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio soddisfi o meno la condizione del “possesso o disponibilità per ragioni dell’ufficio”.

La dottrina non ha speso particolare interesse al tema dell’occasionalità della detenzione. Essa ritiene configurabile il reato di peculato ogni qualvolta sussista una relazione di dipendenza tra il possesso e la qualifica rivestita dal soggetto attivo. In altre parole, per la dottrina, resta indifferente, ai fini penalistici, se la disponibilità del denaro o della cosa mobile altrui risulti o meno occasionale se comunque questa sia dipesa dal ruolo rivestito dal soggetto attivo. Assecondando questa prospettiva, non sarebbe determinante il carattere occasionale della detenzione, quanto, piuttosto, lo stesso venir meno della condizione prima del possesso “qualificato” per ragioni dell’ufficio.
In giurisprudenza è spesso riscontrata l’affermazione che non rientra nella natura di «ragione di ufficio» il possesso o l’affidamento meramente occasionale del denaro o bene altrui al pubblico ufficiale. Infatti, la Cassazione (Sez. VI, 7 gennaio 2003- 4 marzo 2003, n. 99333, CED 223977), ha ritenuto configurabile il delitto di appropriazione indebita aggravata (ex articolo 646 e 61 n.11 del codice penale) e non quello di peculato, nella condotta di un sindaco che aveva sottratto le somme di denaro che gli erano state consegnate in via fiduciaria dal ragioniere comunale per provvedere al versamento dei corrispettivi trimestrali dell’IVA dovuti dall’Ente.

Tuttavia è stato affermato e ribadito che non è necessaria una competenza funzionale tra l’ufficio e la ragione del possesso del denaro o di altra cosa mobile, ma è sufficiente che l’esercizio della funzione o la presentazione del servizio abbiano dato occasione al possesso della cosa di cui il pubblico ufficiale si è appropriato. Questo è il caso esaminato dalla Cassazione (Sez. VI, 11 marzo 2003-15 aprile 2003, n. 17920), che ritiene configurabile il peculato nel fatto del dipendente di un’azienda pubblica di trasporto che si sia impossessato del portafoglio smarrito consegnatogli per la restituzione all’avente diritto.

Altra questione oggetto di discussione è se l’utilizzo per scopi privati del telefono d’ufficio rappresenti la figura delittuosa punita dall’articolo 314, comma secondo del codice penale (il cosiddetto peculato d’uso), ovvero integri gli estremi del peculato “ordinario”.
In un primo periodo, la dottrina condannò indiscriminatamente le condotte di utilizzazione indebita del telefono come reati di peculato; questo atteggiamento tanto rigoristico veniva però mitigato dall’applicazione della meno grave fattispecie del cosiddetto peculato d’uso di cui al secondo comma dell’articolo 314 del codice penale. In pratica, il bene di pertinenza dell’amministrazione trovava la sua individuazione nell’apparecchio telefonico, il quale veniva, dunque, considerato oggetto di un’appropriazione temporanea della durata corrispondente al colloquio telefonico.

La giurisprudenza, più recentemente, si è espressa affermando un orientamento secondo il quale risulterebbe penalmente irrilevante il fatto scarsamente lesivo se consistente in un utilizzo meramente episodico del telefono per scopi privati. In altre parole, occorrerebbe una certa consistenza dell’offesa, considerato che l’utilizzazione sporadica del telefono per ragioni private potrebbe rivelarsi un vantaggio per il buon andamento della pubblica amministrazione. La comunicazione privata, utilizzando il telefono d’ufficio, permette al soggetto di non essere costretto ad abbandonare, seppur temporaneamente, il lavoro per far fronte a esigenze di comunicazioni private.

Accanto a questo atteggiamento più permissivo si manifesta, però, un orientamento maggiormente rigoroso nella qualificazione giuridica del fatto quando l’uso del telefono per ragioni personali raggiunga un’entità tale da configurare il peculato. In questo caso si esclude il peculato d’uso e si ritiene di punire la condotta facendo appello al primo comma dell’articolo 314 del codice penale, in quanto l’oggetto dell’appropriazione non viene più individuato nell’apparecchio telefonico (che rimarrà proprietà dell’amministrazione), ma piuttosto nelle “energie, formate da impulsi elettronici, entrate a far parte della sfera di disponibilità della pubblica amministrazione ed utilizzate nelle conversazioni private”. Di conseguenza, il fatto stesso e l’eventuale disponibilità di corrispondere le somme equivalenti al costo delle chiamate assume valore di mero risarcimento del danno, come da sentenza della Cassazione (Sezione VI, numero 10671) del 7 marzo 2003.

Si discute sul se configuri il delitto di peculato, o quello di abuso d’ufficio, la condotta di un pubblico ufficiale che, servendosi della propria funzione, distolga i dipendenti dall’esecuzione delle attività inerenti al pubblico servizio cui erano adibiti, utilizzandoli per fini privati.
Un primo orientamento della giurisprudenza ritiene integrato il delitto di cui all’articolo 323 del codice penale, in quanto il peculato, in tutte le sue forme, presupporrebbe l’appropriazione di una “cosa”, destinata a fini diversi da quelli previsti dalla legge. Mentre, in questi termini, non sarebbe concepibile la condotta “dell’appropriarsi” di una persona o della sua energia lavorativa. Ciò è stabilito dalla Cassazione con sentenza numero 8484 del 1998. Più recentemente, con sentenza numero 352 del 2001, la Cassazione si è espressa affermando che in tale condotta sussistono elementi del delitto di peculato.

Secondo l’impostazione prevalente in giurisprudenza, da come si evince con sentenza della Cassazione (Sezione VI, numero 9443) del 5 settembre 2000, ai fini della configurabilità del delitto di peculato, la “ragione d’ufficio”, che qualifica il possesso o la mera disponibilità della cosa mobile o del denaro, deve essere intesa nel senso più ampio e tale da comprendere anche il possesso o la detenzione derivante dalla prassi amministrativa.
In tema di peculato dell’incaricato di un pubblico servizio, invece, la “ragione di servizio” giustificatrice del possesso (come da sentenza della Cassazione numero 27850 dell’11 luglio 2001), “non è da identificare soltanto in quella che rientra nella specifica competenza funzionale dell’agente, ma si riferisce anche al possesso del denaro o della cosa altrui derivante, oltre che da norme di regolamento, da prassi e consuetudini”. In questa visione, integrerebbe gli estremi del reato in esame la condotta dell’ausiliario socio-sanitario dell’A.S.L. che si appropri di alcune siringhe monouso rientranti nella dotazione del reparto presso cui lavora ed alla quale abbia libero accesso, in ragione del ruolo rivestito, a prescindere dalla responsabilità della formale custodia del materiale sanitario, di competenza di altro soggetto della struttura.

Nel delitto di peculato rientra il peculato d’uso, previsto e punito dal secondo comma dell’articolo 314 del codice penale. Per il peculato d’uso si applica la pena detentiva da sei mesi a tre anni quando il colpevole ha agito al solo scopo di fare uso momentaneo della cosa e, questa, dopo l’uso momentaneo, è stata immediatamente restituita.

Al pari del peculato in senso stretto, anche il peculato d’uso si caratterizza per essere un reato offensivo sotto diversi aspetti e contraddistinto dall’appropriazione di denaro o altra cosa mobile altrui, che appartenga alla pubblica amministrazione o a terzi, al solo scopo di farne un uso momentaneo. Il presupposto del peculato d’uso è il possesso o comunque la disponibilità dei beni suddetti per ragioni d’ufficio o servizio. Il soggetto attivo in questo reato è lo stesso del peculato in senso stretto, ossia il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio ed il soggetto passivo, cioè la “vittima” del reato, è anche in questo caso la pubblica amministrazione e/o il terzo che ha visto leso dalla condotta illecita un suo interesse specifico a contenuto patrimoniale.

Il delitto del peculato d’uso si consuma nel momento e nel luogo in cui si verifica l’appropriazione del denaro o della cosa mobile e perché il reato si configuri proprio come peculato d’uso occorre che segua la tempestiva restituzione del bene. La pena come si è precedentemente enunciato è sensibilmente inferiore a quella prevista dal primo comma dell’articolo 314 del codice penale e varia da sei mesi a tre anni. Ai sensi dell’articolo 317-bis c.p., inoltre, alla condanna consegue l’interdizione perpetua dai pubblici uffici. Qualora la pena irrogata risulti inferiore ai tre anni, invece, l’interdizione sarà solo temporanea. L’articolo 323-bis c.p., infine, prevede un’attenuante speciale nell’ipotesi di fatti di particolare tenuità.

Una delle questioni rilevanti riguardanti il peculato d’uso è se si tratti di un reato autonomo o di una semplice circostanza attenuante.
Dottrina e giurisprudenza concordano nel ritenere che il peculato d’uso costituisca una figura del tutto autonoma per impianto strutturale rispetto al reato base di cui al primo comma dell’articolo 314 del codice penale e non è classificabile quindi come una semplice attenuante.

Discussa è la configurabilità del peculato d’uso avente per oggetto il denaro.
La dottrina prevalente, facendo leva sul dato letterale della norma espressa nell’articolo 314, al secondo comma del codice penale (il quale prevede una sanzione inferiore nel caso in cui la condotta appropriativa sia il presupposto di un uso momentaneo degli stessi beni oggetto di peculato in senso stretto), crede configurabile il peculato d’uso anche quando sia il denaro l’oggetto della condotta, non essendo contenuta alcuna limitazione in tal senso nel secondo comma dell’articolo 314 c.p..

Un’altra parte della dottrina, invece, ritiene che il peculato d’uso sia configurabile solo in relazione a cose di specie e non di denaro, essendo soltanto le prime suscettibili di un utilizzo momentaneo, e di essere poi restituite. Assecondando questa prospettiva, il denaro, una volta speso non è più recuperabile nella sua identità iniziale (quelle stesse banconote sono entrate nel circuito monetario), tuttalpiù nell’equivalente.

Dello stesso avviso appare anche la giurisprudenza più recente che con sentenza della Cassazione, datata 16 gennaio 2003, rileva che il peculato d’uso è configurabile soltanto se ricade su cose di specie e non su cose di quantità escludendo, dunque, la configurabilità del peculato se ricade sul denaro. Di conseguenza, il pubblico ufficiale che abbia temporaneamente fatto uso di denaro della pubblica amministrazione, risponderà di peculato secondo il primo comma dell’ex art. 314 c.p..

Occorre però registrare un orientamento minoritario (e meno recente) che ammette il peculato d’uso in relazione a cose fungibili e dunque anche con riferimento al denaro, a condizione che non si tratti di sottrazione ripetuta di somme e l’agente, immediatamente dopo l’uso, operi la restituzione senza soluzione di continuità, (come previsto dalla Cassazione, Sezione IV, 14 marzo 1995).
Un problema, per alcuni aspetti analogo, si è posto per l’uso di chiamate di interesse personale dell’utenza telefonica intestata alla pubblica amministrazione.

Facendo riferimento all’articolo 10 del codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche Amministrazioni, approvato con decreto 31 marzo 1994 MIN. P. F., un primo orientamento esclude che si configuri reato nell’utilizzazione, in circostanze eccezionali d’urgenza, con caratteri di sporadicità, del telefono d’ufficio per comunicazioni private. In questo caso, si eviterebbero pregiudizievoli assenze dal posto di lavoro (come da Cassazione, Sezione VI, 31 gennaio 2003, n. 10719, CED 224864). Tuttavia, un orientamento più rigoristico ritiene che quella condotta integri il reato di peculato d’uso, considerando l’uso momentaneo dell’apparecchio telefonico (un esempio ne è la Cassazione, con sentenza numero 788 Sezione VI del 14 febbraio 2000, con riferimento all’uso di un telefax per finalità personali).

Ancora più rigoroso è, poi, un terzo indirizzo espresso con sentenza numero 7772 del 17 febbraio 2003 dalla Cassazione, Sezione VI, nella quale si ritiene configurabile la più grave ipotesi di peculato di cui al primo comma, osservando che oggetto dell’appropriazione non è l’apparecchio telefonico ma le energie, formate da impulsi elettronici occorrenti per le conversazioni e che, entrate nella disponibilità della pubblica amministrazione, non possono essere, a conclusione dell’uso, restituite.

In tema di uso improprio dell’auto di servizio è stato osservato che l’elemento materiale che distingue il cosiddetto peculato d’uso dalla più grave ipotesi di cui al primo comma dell’articolo 314 del codice penale, è “l’uso momentaneo della cosa” e la “sua immediata restituzione” dopo l’uso. Da precisare che “uso momentaneo” non equivale ad “istantaneo” ma a “temporaneo”, il che significa protratto per un tempo limitato così da comportare una sottrazione della cosa alla sua destinazione istituzionale tale da compromettere la funzionalità della Pubblica Amministrazione.

Così, come previsto dalla Cassazione (Sezione VI), con sentenza numero 10233 del 10 gennaio 2007, non è configurabile il reato quando la condotta abusiva si sia concretizzata in un utilizzo temporaneo dell’autovettura senza che sia venuta meno la funzionalità della Pubblica Amministrazione e in mancanza di un apprezzabile danno patrimoniale.

In passato non era sufficientemente chiara la differenza tra peculato e truffa. Il problema si pone in quei casi in cui il pubblico ufficiale entra in possesso del denaro oggetto dell’appropriazione mediante artifici e falsificazione dei documenti. Oggi non assume rilievo il cosiddetto criterio cronologico (per il quale si avrebbe truffa se l’artificio è posto in essere per procurarsi il denaro del quale non si ha ancora il possesso), ma si ritiene che la distinzione vada riconosciuta nel modo in cui il funzionario infedele viene in possesso del denaro del quale si appropria, come da Cassazione, Sezione VI, 4 giugno 1997- 8 giugno 1998, numero 6753: “ricorre il reato di peculato qualora sul possesso del bene non incidano i raggiri, gli artifizi o la falsa documentazione, servendo essi non già per entrare in possesso del bene, bensì per occultare il delitto”.

L’articolo 316 del codice penale disciplina un’ipotesi più lieve di peculato, quello mediante profitto dell’errore altrui: il pubblico ufficiale (o l’incaricato di pubblico servizio) riceve o ritiene, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità, approfittando del fatto che il soggetto passivo spontaneamente gli consegni la cosa ritenendo erroneamente che gli sia dovuta e che gli sia dovuta in quella quantità. In questo frangente il soggetto passivo (che può anche essere un altro organo della stessa pubblica amministrazione o un cittadino) cade in errore sull’an o sul quantum debeatur “spontaneamente” e non a seguto di una condotta truffaldina del soggetto attivo (in tal caso, si avrebbe truffa aggravata o peculato, secondo quanto rilevato sopra). L’errore deve, inoltre, cadere sull’ an o sul quantum debeatur e non sulla competenza del pubblico ufficio a ricevere la cosa (se il denaro viene versato per errore ad un pubblico ufficiale incompetente a riceverlo e questi se ne appropria, si avrà peculato ex articolo 314 del codice penale, come ad esempio da sentenza della Cassazione numero 9732, Sezione VI, del 13 maggio 1992- 13 ottobre 1992).