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Diffamazione: delitto previsto dall’art. 595 c. p.

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Diffamazione: delitto previsto dall’art. 595 c. p.

diffamazione

Il reato di diffamazione punisce chiunque, fuori dai casi indicati nell’articolo precedente, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione è punito con la reclusione fino ad un anno o con la multa fino a € 1.032.

Se l’offesa consiste nella attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino a € 2.065.

Se l’offesa è recata col mezzo della stampa, o con qualsiasi altro mezzo di puccità, ovvero in atto pubblico, la pena è della reclusione da sei mesi a tre anni o della multa non inferiore a € 516.

Se l’offesa è recata a un Corpo politico, amministrativo o giudiziario, o ad una sua rappresentanza, o ad una Autorità costituita in collegio, le pene sono aumentate.

Ogni consociato è tenuto al rispetto degli altri membri della collettività, del loro onore e reputazione sociale, diffusa nella comunità di appartenenza.

Il reato di diffamazione è un delitto, punibile a titolo di dolo, con la pena detentiva e pecuniaria proporzionata alla differente gravità delle condotte previste dalla norma.

Il bene giuridico tutelato è l’integrità morale della persona, la reputazione intesa in senso soggettivo, come considerazione del mondo esterno.

Per “diffamazione” si intende una offesa gratuita, del tutto generica e non fondata su fatti veri e dimostrabili, caratterizzata dall’elemento soggettivo del dolo generico, ossia dalla volontà denigratoria e dalla consapevolezza delle conseguenze lesive della reputazione  (Cass. pen., sez. V, 7 ottobre 2014, n .47973; Cass. pen., sez. V, 26 settembre 2014, n. 48712).

La norma richiede che il soggetto diffamato sia identificabile con certezza (Cass. pen., sez. V, 9 giugno 2016, n. 24065).

La configurazione della prima condotta illecita presuppone la sussistenza di tre elementi: l’offesa, la percezione da più soggetti della stessa e l’assenza del soggetto diffamato.

Il trattamento sanzionatorio prevede la pena detentiva della reclusione fino ad un anno oppure, alternativamente, della pena pecuniaria della multa fino ad € 1.032.

La condotta è aggravata se l’offesa consiste nella attribuzione di un fatto specifico ed è punita con la pena detentiva della reclusione fino a due anni o, alternativamente, con la pena pecuniaria della multa fino ad € 2.065.

La condotta è altresì aggravata ove la diffamazione avvenga a mezzo stampa, con mezzo di pubblicità (a titolo esemplificativo, i social network) o atto pubblico, ed è punita con la pena detentiva della reclusione fino a tre anni oppure, alternativamente, con la pena pecuniaria della multa  non inferiore ad € 516.

Scriminante dal reato  di diffamazione è l’esercizio del diritto di cronaca, critica e satira purché rispettino i requisisti di veridicità, rilevanza pubblica, pertinenza e continenza.

Le cronache giornalistiche devono essere ancorate a fatti storici veri (Cass. pen., sez. V , 10 maggio 2019, n. 34129; Cass. pen., sez. I, 3 ottobre 2013, n. 40930) e possono esprimere giudizi critici, purché rispettosi della dignità altrui, formulati con giusta misura e con modalità espressive funzionali alla comunicazione dell’informazione, senza l’impiego di un linguaggio inutilmente aggressivo ed infamante (Cass. pen., sez. V, 30 aprile 2015, n. 18170; Cass. pen., sez. V, 13 aprile 2011, n. 15060; Cass. pen., sez. V, 10 febbraio 2011, n. 4938).

Si aggiunga che il giornalista è legittimato ad accostare notizie vere e, ove ne derivi una sostanzialmente nuova, è tenuto a provarne la rispondenza al vero (Cass. pen., sez. V, 8 maggio 2017, n. 22193)

A titolo esemplificativo, configura reato di diffamazione la condotta del:

  • blogger che consapevolmente non rimuova i commenti denigratori pubblicati da terzi sul proprio sito (Cass. pen., sez. V, 08 novembre 2018, n. 12546);
  • direttore di giornale che pubblichi un articolo diffamatorio anche se a firma di un terzo (Cass. pen., sez. V, 22 febbraio 2012, n. 15004);
  • difensore che rediga un atto giudiziario contenenti espressioni diffamatorie (Cass. pen., sez. V, 25 marzo 2011, n. 20882).

L’attuale emergenza sanitaria determinata dalla pandemia da virus Covid-19 impone ai soggetti sottoposti alla misura della quarantena o risultati positivi alla malattia l’assoluto divieto di uscire dalla propria abitazione, dimora o domicilio, in quanto pericolosi per la salute pubblica.

Per sentimento popolare e per stessa indicazione normativa, l’assunzione della qualità di “contagiato” comporta non solo stringenti limitazioni alla libertà personale, ma anche inevitabili pregiudizi alla percezione sociale della propria persona.

A tal proposito, in queste settimane, numerose sono state le denunce-querele sporte per diffamazione contro soggetti che, mediante messaggistica whatsapp e post pubblici sui social network, hanno dolosamente diffuso false notizie di persone contagiate, sintomatiche o asintomatiche, riferendone l’identità ed inventandone i comportamenti inosservanti la misura della quarantena.

La condotta determina una irrimediabile lesione alla dignità morale delle persone offese, additate come “untori”, e configura reato di diffamazione aggravata ove abbia il consapevole obiettivo del discredito.

Il termine “diffamazione” è stato altresì impiegato dal Ministro degli Affari Esteri cinese in relazione all’espressione “virus cinese” adottata dall’opinione pubblica statunitense.

Ricondurre la genesi del virus Covid-19 allo Stato Cinese e pertanto attribuire allo stesso la responsabilità della diffusione è notizia non corrispondente a verità, volutamente offensiva e denigratoria della popolazione asiatica.

Ne risulta che la veicolazione di qualsivoglia informazione circa l’attuale pandemia può essere agevolmente strumentale a fini diffamatori ove sia coscientemente manipolata e violi i canoni di verità.