Misure di sicurezza: cenni storici e presupposti applicativi
L’introduzione delle misure di sicurezza rappresenta una delle novità più significative della codificazione del 1930.
L’obiettivo originario del legislatore era quello di riformare il sistema penale in conformità alle tendenze politico-criminali dell’epoca, favorevoli al potenziamento della difesa sociale attraverso l’introduzione, in aggiunta alle tradizionali pene, di nuove misure sanzionatorie indirizzate a neutralizzare la pericolosità sociale di determinate categorie di criminali. Questo modus operandi viene definito sistema del doppio binario. Secondo questa visione, mentre la pena svolge la funzione retributiva e di prevenzione generale, la misura di sicurezza assolve una funzione fortemente «specialpreventiva», in quanto (almeno in teoria) diretta alla rieducazione e alla cura del soggetto socialmente pericoloso.
L’introduzione del «doppio binario» quale pur discutibile risposta legislativa al dilemma di superare le falle del diritto penale «classico» nella lotta alla crescente criminalità, sortì anche l’effetto di favorire la riappacificazione tra la Scuola «classica» e la Scuola «positiva», dopo anni di aspro dibattito sulla natura e la funzione della pena: la contemporanea presenza nel sistema di «pene» e «misure», rispettivamente legate ai contrapposti paradigmi della tradizionale colpevolezza difesa dai «classici» e della pericolosità sociale sostenuta dai «positivisti» apparve infatti come una sorta di compromesso (o meglio di accostamento dei diversi punti di vista delle due scuole in conflitto) che accontentava un po’ tutti. Tuttavia non trascorse molto tempo prima che ci accorgesse che il nuovo meccanismo sanzionatorio introdotto, lontano dal dar vita ad un sistema organico e coerente, risultava inficiato da contraddizioni e incoerenze che ne avrebbero compromesso l’intima razionalità.
Oltre a consentire di innovare il sistema penale senza traumatiche rotture, e cioè garantendo una continuità storica rispetto ai consolidati canoni della tradizione penalistica, la «compresenza» di pene e misure di sicurezza finiva però anche col soddisfare esigenze politiche contingenti, delle quali il legislatore dell’epoca si faceva interprete: e cioè il meccanismo del doppio binario, risolvendosi in un sistema di rigida difesa sociale che anteponeva l’obiettivo della tutela della collettività alla garanzia dei diritti del singolo, ben si prestava ad assecondare l’autoritarismo repressivo dello Stato fascista e ad accreditarne l’immagine di regime forte anche nella lotta alla delinquenza. D’altronde, questo surplus di repressivismo è stato reso possibile non solo dal fatto che, nel caso dei soggetti «imputabili» giudicati socialmente pericolosi, la misura di sicurezza si cumula alla pena, ma anche dalla circostanza che la stessa misura di sicurezza ha mantenuto, sia nella disciplina astratta, sia nell’esecuzione concreta, caratteri rilevanti di afflittività. [G. Fandeca- E. Musco, Diritto penale, Parte generale, Zanichelli Editore].
Coerentemente alle vedute dominanti al momento dell’emanazione del codice, le quali tendevano a rimarcare il differente carattere della funzione «repressiva» (ancorata al reato e alla colpevolezza) e di quella «preventiva» (ancorata alla pericolosità sociale), alle misure di sicurezza venne in origine attribuita natura amministrativa: la misura di sicurezza infatti, in quanto mezzo di profilassi avente come scopo la tutela della collettività attraverso la neutralizzazione dell’individuo pericoloso, veniva inquadrata nell’ambito dell’attività di polizia, e cioè di un’attività amministrativa tipicamente finalizzata alla difesa preventiva della società.
Oggi quasi tutta la dottrina respinge la tesi della natura amministrativa e considera, invece, la misura di sicurezza una sanzione criminale di competenza del diritto penale, infatti la misura di sicurezza è in sostanza forse più afflittiva della sanzione detentiva e viene applicata attraverso un processo giurisdizionale.
Successivamente al riconoscimento costituzionale del finalismo rieducativo delle stesse pene in senso stretto (art. 27, comma 3˚ Cost.), si è di fatto persa quella distinzione di scopi che in origine giustificava lo sdoppiamento del sistema sanzionatorio nell’assetto codicistico del 1930 che vedeva la pena come una retribuzione ed una prevenzione generale, e la misura di sicurezza come una prevenzione speciale a mezzo di incapacitazione e/o risocializzazione. Proprio perché il suo scopo è «tendere alla rieducazione del condannato», la pena dovrebbe farsi carico di neutralizzare o comunque attenuare la pericolosità del reo e impedirne la recidività nel commettere delitti. Stando così le cose, diventa problematico continuare a legittimare la sopravvivenza delle misure di sicurezza, infatti la dottrina più avveduta si interroga sullo spazio residuo che ad esse possa legittimamente essere riservato all’interno di un diritto penale costituzionalmente orientato.
Le misure di sicurezza sono destinate a soggetti «imputabili» socialmente pericolosi, a soggetti «semi-imputabili» ed a soggetti «non imputabili». Alle prime due categorie di soggetti le misure si applicano cumulativamente con la pena, dando vita così al sistema del cosiddetto «doppio binario»; alla terza categoria di soggetti, esse si applicano in modo esclusivo.
Le misure di sicurezza incidono in senso fortemente restrittivo sulle libertà del singolo e per questa ragione esse sonno sottoposte al principio di legalità. In base all’articolo 199 del codice penale: «nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza che non siano espressamente stabilite dalla legge e fuori dei casi dalla legge stessa preveduti». Lo stesso principio è consacrato e ribadito dal terzo comma dell’articolo 25 della Costituzione, per il quale: «nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge».
Il principio di legalità garantisce che ogni attività di applicazione delle misure di sicurezza riceva la sua legittimazione dalla legge, la quale deve determinare il tipo di misura applicabile ed elencare tassativamente i casi nei quali il giudice può adottarla.
La Corte costituzionale (con sent. n. 157 del ’72) stabilì che il principio di legalità in materia di misure di sicurezza implicasse l’esigenza di una «completa, tassativa e non equivoca previsione legislativa» dalle ipotesi di applicabilità delle misure stesse. È da considerare però che la tassatività in questo campo va intesa in un’accezione necessariamente più elastica, e questo almeno per due ragioni: le fattispecie soggettive di pericolosità, poiché costituite da elementi sintomatici attinenti alla personalità dell’individuo, sono ricostruibili con minore precisione rispetto alle fattispecie incriminatrici; nello stesso tempo, il giudizio prognostico sulla pericolosità è per sua stessa natura esposto ad inevitabili margini di incertezza. Questo però non libera il legislatore dal suo impegno di indicare con sufficiente determinatezza, gli elementi ed i criteri alla cui stregua effettuare l’accertamento giudiziale di probabile ricaduta nel delitto, un’esigenza questa, tutt’altro che soddisfatta dall’articolo 133.
Le misure di sicurezza sono regolate dalla legge in vigore al tempo della loro applicazione, ma se la legge del tempo in cui deve eseguirsi la misura di sicurezza è diversa, si applica la legge in vigore al tempo dell’esecuzione.
Questa disciplina tratta dall’articolo 200 del codice penale, riconosciuta costituzionalmente legittima (Crf. Corte cost., 29 maggio, n. 53, in Giur. Cost., 1968, 802) decreta solo in apparenza il principio di retroattività. In realtà, tutta la materia della successione delle leggi penali «non solo per quel che concerne la previsione dei reati, ma anche per ciò riguarda il tipo e la quantità di sanzioni (pena, misura di sicurezza, risarcimento del danno non patrimoniale) da applicare in sede giurisdizionale» è regolata dall’articolo 2 del codice. Infatti è proprio la ratio di garanzia che ispira l’articolo 25 della Costituzione ad escludere che possa applicarsi una misura di sicurezza, per un fatto che al momento della commissione non costituiva reato, o che possa applicarsi ad un fatto di reato una misura originariamente non prevista (o diversa da quella inizialmente prevista). A questo punto l’articolo 200 è limitato all’eventualità che una legge successiva disciplini in maniera diversa mere modalità esecutive di una misura di sicurezza già legislativamente prevista al momento della commissione del fatto.
Le misure di sicurezza possono essere applicate in presenza di due presupposti, un primo oggettivo: la commissione di un fatto previsto dalla legge come reato, e un secondo presupposto soggettivo: la pericolosità sociale del soggetto.
L’articolo 202 del codice penale stabilisce proprio che le misure di sicurezza possono essere applicate soltanto alle persone socialmente pericolose, le quali abbiano commesso un fatto preveduto dalla legge come reato.
Perché il legislatore ha subordinato l’applicabilità della misura alla «previa» commissione di un reato? In effetti, dal momento che la chiara funzione «specialpreventiva» delle misure di sicurezza trova la sua ragion d’essere nella pericolosità del soggetto, intesa come spiccata attitudine a delinquere in futuro, si potrebbe obiettare che, proprio in un’ottica di prevenzione, non si bada tanto ai reati già commessi, quanto più a quelli che facilmente si commetteranno in futuro, per cui, ai fini dell’applicabilità della misura di sicurezza, il requisito della previa commissione di un reato dovrebbe coerentemente considerarsi superfluo. Il fatto è che lo stesso legislatore del 1930 ha ritenuto di dover accordare la prospettiva della prevenzione e della sicurezza con ineludibili esigenze garantistiche. In pratica, la consapevolezza che la stessa misura di sicurezza incide profondamente sulla libertà del singolo, ha indotto il legislatore alla prudenza, cioè a preoccuparsi degli eventuali arbitri connessi all’accertamento giudiziale del, manipolabile, requisito della pericolosità sociale: da questa prospettiva, il pregresso reato dovrebbe indicare chiaramente la pericolosità del soggetto.
Questo principio fondamentale subisce però due eccezioni, sempre stabilite, tassativamente, dalla legge: il giudice può applicare una misura di sicurezza sia nell’ipotesi del reato impossibile (art. 49), sia nel caso di accordo criminoso non eseguito o istigazione a commettere un delitto, se l’istigazione non viene accolta (art. 115). Si tratta delle ipotesi che la dottrina qualifica come «quasi reato» a significare che si è in presenza di un’azione che, pur non avendo carattere di reato, si manifesta in modo tanto prossima al reato da riconoscere, inequivocabilmente, in essa un indizio sicuro di pericolosità sociale.
L’interpretazione della locuzione «fatto preveduto come reato» non pone problemi: è necessario che il fatto sia conforme ad una figura criminosa e che non esistano al contempo delle cause di giustificazione.
Come anticipato, anche rispetto agli illeciti penali commessi dai «non imputabili» operano le disposizioni generali del codice relative all’elemento soggettivo del reato, comprese quelle sull’errore e l’ignoranza. La differenza è che questa volta il «dolo» e la «colpa» fungono meno da requisiti di colpevolezza strettamente intesi e rappresentano piuttosto indici psicologici dell’appartenenza del fatto all’autore.
Il secondo presupposto, di carattere soggettivo, per l’applicazione delle misure di sicurezza è la pericolosità sociale.
Quello di «pericolosità» è in sé concetto generico, potenzialmente carico di una pluralità di significati e perciò virtualmente polifunzionale, onde si comprende come la sua utilizzazione nel diritto penale sia abbastanza risalente nel tempo. Quale nozione nella sostanza vicina a quella del senso comune, la pericolosità si presta infatti a fungere da comoda etichetta che canalizza un bisogno emotivo di rassicurazione nei confronti di gruppi di persone percepite di volta in volta come socialmente minacciose (così ad es., già in epoca preilluministica, il concetto di pericolosità è stato alla base della legislazione sul vagabondaggio e la mendicità).
Peraltro, lo stesso concetto generico di pericolosità costituisce il fondamento, quantomeno implicito, delle concezioni utilitaristiche del diritto penale che già nel primo ottocento si ispiravano al paradigma «preventivo»: nell’individuare, ad esempio con Bentham, il fine della pena nell’intimidazione, non si può non pensare alla pericolosità del reo sia come pericolo di recidiva, sia come pericolo che altri soggetti siano indotti a delinquere suggestionati dal cattivo esempio di chi ha già delinquito (G. Fandeca- E. Musco, Diritto penale, Parte generale, Zanichelli Editore).
La categoria della pericolosità sociale (o criminale), quale presupposto per l’applicazione delle “misure di sicurezza” è stata dal legislatore del ’30 recepita secondo la specifica elaborazione maturata nell’ambito del positivismo criminologico di fine Ottocento: in tale contesto teorico e culturale, la pericolosità sociale viene dunque a coincidere con la probabilità che un soggetto, a causa delle sue caratteristiche psichiche e/o dell’influenza esercitata dall’ambiente, commetta in futuro reati. Da questa prospettiva, la categoria della pericolosità si discosta nettamente da quella della colpevolezza: a differenza di quest’ultima, che presuppone una sufficiente signoria dell’individuo sulle proprie azioni, la prima riflette al contrario l’insieme delle inclinazioni che spingono il soggetto a delinquere in maniera pressoché necessitata.
In linea con questi presupposti di fondo, l’art. 203 del codice afferma: «agli effetti della legge penale, è socialmente pericolosa la persona, anche se non imputabile o non punibile, la quale ha commesso taluno dei fatti indicati nell’articolo precedente, quando è probabile che commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati». Questa definizione legislativa della pericolosità sociale come «probabilità» che si commettano nuovi reati sottolinea che, ai fini dell’applicabilità di una misura di sicurezza, non è sufficiente la sola «possibilità» di ricadere nel delitto, ma per il legislatore è necessario un grado di possibilità tanto elevato da corrispondere ad una reale probabilità che il delitto si riverifichi. Secondo un accreditato orientamento, la diversità di grado che intercorre tra la semplice possibilità e la probabilità svolgerebbe anche il ruolo di criterio differenziatore tra i rispettivi concetti di pericolosità sociale e capacità di delinquere.
La dottrina meno recente ha tentato di definire la nozione giuridica di pericolosità sociale, descrivendola ora come una qualità o modo di essere dell’autore del fatto, ora come un’attitudine o inclinazione dell’individuo a commettere reati, ad ogni modo si è trattato per lo più di tentativi di definizione sterili e persino tautologici.
Attualmente si è pressoché concordi, invece, nel considerare la pericolosità sociale, il risultato di un giudizio prognostico effettuato dal giudice circa la probabilità di ricaduta nel delitto. A base della prognosi, nel nostro ordinamento, l’organo giudicante è tenuto ex art. 203 a utilizzare sempre gli indici offerti dall’art. 133: mentre in sede di commisurazione della pena gli elementi ivi indicati devono essere valutati in funzione del giudizio di responsabilità, qui devono essere utilizzati ai fini della prognosi criminale che fa da presupposto all’applicabilità della misura di sicurezza.
Nella disciplina codicistica originaria, la regola generale del previo accertamento in concreto della pericolosità da parte del giudice (art. 204, comma 1˚) subiva rilevanti deroghe in alcuni casi, espressamente previsti, di presunzione di pericolosità (art. 204, comma 2˚): era la stessa legge dunque, in presenza di determinati presupposti relativi alla gravità del fatto commesso e/o alle particolari condizioni psicologiche dell’agente, ad attribuire la qualità di persona socialmente pericolosa, con una presunzione juris et de jure, che non ammetteva prova contraria.
Tali presunzioni, se da un lato tradivano una certa sfiducia del legislatore nella capacità dei giudici di accertare la pericolosità (insieme anche alla preoccupazione garantistica di evitare possibili abusi), dall’altro lato “prestavano il fianco” a gravi obiezioni su di un duplice piano. Innanzitutto, sul versante delle scienze antropologiche e psichiatriche, sin dagli anni sessanta fu facile obiettare che la pericolosità «presunta» è una categoria finzionistica che, potendo dare adito a fratture tra valutazione giuridica e realtà naturalistica, fa apparire ingiustificata l’applicazione di una misura di sicurezza. Dal punto di vista strettamente giuridico, come ha riconosciuto la stessa Corte costituzionale almeno negli interventi più recenti, numerose ipotesi di pericolosità presunta finivano poi col confliggere in maniera manifesta con diversi parametri costituzionali.
La disciplina delle misure di sicurezza, dopo essere stata modificata dalle pronunce di annullamento emesse dai giudici della Consulta, è stata radicalmente rinnovata dall’articolo 311 n. 663/86 (c.d. legge Gozzini in tema di «miniriforma» penitenziaria) che, seppur in maniera inattesa e per certi versi frettolosa, ha proceduto all’abolizione di ogni forma di presunzione legale di pericolosità, abrogando l’art. 204 del codice e stabilendo: «Tutte le misure di sicurezza personali sono ordinate previo accertamento che colui il quale ha commesso il fatto è persona socialmente pericolosa».
Dunque, anche nei casi di (originaria) presunzione legislativa di pericolosità, il giudice, prima di applicare una misura di sicurezza, è sempre tenuto a procedere all’accertamento concreto della pericolosità sociale dell’autore.
C’è da tenere in considerazione che l’innovazione legislativa poc’anzi menzionata, sebbene importante, è intervenuta in una fase storica nella quale, la stessa categoria della pericolosità sociale è caduta in crisi per ragioni che attengono sia al suo fondamento teorico, sia alla sua funzionalità pratica, perciò la presa di posizione del legislatore dell’86 difficilmente avrebbe potuto avere come effetto la rivitalizzazione dell’istituto in parola.
Nella stessa prassi applicativa, del resto, si ravvisano prove della sfiducia crescente nei riguardi della categoria della pericolosità. In riferimento soprattutto ai rei «imputabili», da qualche tempo si registra la tendenza ad astenersi da dichiarazioni giudiziali di abitualità e professionalità nel reato (artt. 103 e 105), per non dire da dichiarazioni di tendenza a delinquere (art.108).
Se in futuro questo orientamento astensionistico da parte dei giudici si consoliderà, anche con riguardo agli ulteriori casi in cui la pericolosità è oggi divenuta suscettiva di accertamento concreto, si finirà con l’assistere ad una sorta di soppressione di fatto delle misure di sicurezza potenzialmente applicabili ai rei capaci di intendere e di volere.
Ben altra rilevanza pratica assume, invece, l’abolizione della pericolosità presunta rispetto alla pericolosità sociale degli infermi di mente, al contrario qui si assiste ad un’acutizzazione del dibattito sul problema del rapporto tra malattia mentale e pericolosità, e questo anche perché, in caso di disconoscimento giudiziale della pericolosità sociale dell’infermo non imputabile, alla commissione del reato non consegue più alcuna reazione di tipo sanzionatorio.
L’attuale crisi della pericolosità sociale è determinata anche dalla crescente presa d’atto delle incertezze e delle difficoltà connesse al suo accertamento concreto in sede giudiziale, per cui alla crisi del fondamento teorico si affianca una crisi di metodi di accertamento.
La verifica giudiziale della pericolosità sociale ripropone infatti il problema, oggi particolarmente dibattuto, dei limiti di validità scientifica della c.d. prognosi criminale, cioè del giudizio che tende a predire il futuro comportamento criminale del reo, anche se in realtà, i metodi della prognosi criminale sono vari, e alcuni, almeno in teoria, vantano una maggiore dignità scientifica. Tuttavia la possibilità di emettere giudizi predittivi dotati di un minimo di affidabilità deve, in ogni caso, fare i conti con le condizioni di praticabilità offerte dalle strutture processuali e com’è noto, il processo vigente lascia emergere pochissimi dati empirici utili al giudizio prognostico, per cui la piattaforma conoscitiva della prognosi rimane in gran parte costituita soltanto da elementi documentali.
Questo spiega come mai il metodo di accertamento più diffuso nella prassi giudiziaria, compresa la nostra, sia quello c.d. intuitivo, ossia il giudice si costruisce un quadro generale della personalità dell’imputato sulla base della sua esperienza e della sua personale attitudine a conoscere gli uomini. Come già anticipato, la base di questa prognosi intuitiva è costituita nel nostro ordinamento dagli elementi indicati dall’art. 133 (motivi a delinquere e carattere del reo, precedenti penali e giudiziari, condotta di vita ecc.) che però, come ormai è riconosciuto, tratta elementi troppo generici; inoltre, lo stesso art. 133 omette di additare il criterio alla cui stregua il giudice deve valutare gli elementi ivi menzionati. Date le circostanze, non deve sorprendere troppo se il giudizio di pericolosità spesso risulta, oltre che intuitivo, soggettivamente arbitrario e quindi poco affidabile.
Ad ogni modo, a prescindere dalle attuali falle della normativa e della prassi applicativa italiana, un fondato scetticismo riferito alla possibilità di eliminare i rischi di arbitrio è alimentato dall’acquisita consapevolezza dei limiti insiti nei metodi predittivi scientificamente più accreditati: tali limiti derivano dall’imprevedibilità sia delle decisioni soggettive dell’individuo, sia delle reazioni individuali al mutare delle condizioni esterne in cui si manifesta il comportamento umano.